A fronte dei lunghissimi viaggi affrontati, e spesso tragicamente interrotti già in suolo africano, i nostri “fratelli africani” (come dovremmo chiamarli in virtù della comune origine dell’essere umano come “homo erectus” e della comune appartenenza appunto alla “razza umana”) arrivano sulle sponde del Mediterraneo pronti per affrontare l’ultima e più difficile tappa verso la “salvezza”, la “nuova vita”, la “ricchezza”, il “benessere”, verso quei “soldi e beni materiali che fanno felici i bianchi e faranno felici anche noi”…
di Paolo Merlo
A fronte dei lunghissimi viaggi affrontati, e spesso tragicamente interrotti già in suolo africano, i nostri “fratelli africani” (come dovremmo chiamarli in virtù della comune origine dell’essere umano come “homo erectus” e della comune appartenenza appunto alla “razza umana”) arrivano sulle sponde del Mediterraneo pronti per affrontare l’ultima e più difficile tappa verso la “salvezza”, la “nuova vita”, la “ricchezza”, il “benessere”, verso quei “soldi e beni materiali che fanno felici i bianchi e faranno felici anche noi”…
Queste sono le idee che girano nella testa di coloro che, abituati a vivere senza null’altro che il minimo necessario per la sopravvivenza, vedono il “mzungu” o il “kavagia” (così si chiama l’uomo bianco in swahili e in arabo) e i suoi comportamenti troppo spesso eticamente discutibili. A volte trovano solo rigetto. Ma resistono ugualmente.
Ricordiamo per un momento che, nella maggior parte delle aree extraurbane delle capitali africane, e quindi nella quasi totalità del territorio, l’acqua si va a prendere in pozzi da cui noi bianchi non possiamo bere, l’elettricità non arriva, ed in mancanza di essa, non arriva la possibilità di conservare il cibo, e arrivano ora, dopo molti anni, le prime reti telefoniche cellulari.
Spero di aver riassunto così, in poche ma spero semplici parole, lo “spirito del viaggio”, che, come già detto nel precedente articolo, non dipende sempre e solo dalle guerre, dalle carestie, dallo stato di sfruttamento, ma proprio anche dal vedere la differenza del livello di vita tra “nord e sud del mondo”, tra paesi economicamente sviluppati e “paesi in via di sviluppo”, come tanto generosamente li chiamiamo, nascondendoci dietro il dito degli “aiuti economici” (ma anche militari, politici, e di “scambio”).
L’arrivo alle sponde del Mediterraneo è la fine dell’incubo del “viaggio”, la maggior parte delle volte nel deserto, o attraverso paesi in stato di belligeranza, o con il pericolo dei razziatori, ma si trasforma immediatamente nell’incubo delle “polizie”, della cattura, del rinvio al punto di partenza, ma anche quello, molto più frequente e squallido del diventare, in un brevissimo tempo “merce di scambio” tra bande criminali, e quindi possibili “oggetti da sfruttare economicamente” attraverso la prostituzione, il commercio degli organi, lo sfruttamento lavorativo nei paesi “ricchi”…
L’arrivo in Marocco, Tunisia e Libia principalmente, comporta al profugo che viene dall’Africa tropicale ed equatoriale, di essere incarcerato o segregato in “campi profughi” che ricordano i “lager nazisti”… Le testimonianze degli operatori che cercano di aiutare i profughi sono tutte concordi nel considerare questi “centri di raccolta” come anticamera della morte. A parte ogni considerazione sulla condizioni igienico-sanitarie, definite spesso “indegne di esseri umani”, i profughi sono soggetti a denutrizione, scarsità di acqua e di medicine, maltrattamenti da parte delle polizie e dei responsabili dei centri stessi, sfruttamento di ogni tipo e riduzione in stato di schavitù.
Ripenso automaticamente al “Fondo per l’Africa”, istituito negli ultimi mesi dai ministeri degli Esteri e degli Interni italiani: un fondo, iniziato con duecento milioni di euro, destinato “all’Africa”, come direbbe il titolo, ma in realtà alle polizie di Libia, Niger e Tunisia, per il potenziamento delle attività di “respingimento” verso i paesi di origine dei profughi che arrivano in questi tre paesi.
Facile, fin troppo, pensare (come riferisce anche “Pax Christi” attraverso un articolo di don Tonio Dell’Olio sul “Mosaico dei Giorni”) a come verranno utilizzati questi fondi: respingendo con la forza delle armi i profughi verso i paesi di origine, in cui troveranno probabilmente la morte, o durante il viaggio di ritorno, o per opera di chi li aveva “comprati”, per evitare che nei paesi di origine si sappiano i rischi del “viaggio della speranza”.
Fino alla strage di profughi dell’Isola dei Conigli del 3 ottobre 2013, l’operazione italiana “Mare Nostrum” aveva dato un certo numero di frutti: molte imbarcazioni, anche se fatiscenti, arrivavano a fare la traversata, anche con l’aiuto della Marina Militare e della Guardia Costiera, e, se pure c’era stato un aumento negli arrivi via mare, questi avvenivano in condizioni di minima sicurezza.
Come testimonia anche il dr. Bartolo, medico di Lampedusa, già più volte citato in questi articoli, si verificavano incidenti, come quello tragico di cui sopra, ma erano per la maggior parte delle volte casuali o dovuti al tempo atmosferico ed alle condizioni del mare.
Dopo la tragedia dell’Isola dei Conigli interviene l’Europa con l’operazione “Frontex”: non cambia molto, ma le “regole di ingaggio” cambiano. Da questo momento le navi militari che partecipano all’operazione possono arrivare a 20 miglia dalla costa nordafricana, anziché fino alle 40 miglia di prima.
Che succede? Semplicemente che i “trafficanti di profughi”, rassicurati sulle condizioni di viaggio di questi ultimi, non spendono più i loro soldi per comprare vecchi pescherecci in disarmo, ma piccoli gommoni monotubolari a basso consumo e con motori minimali, che vengono attrezzati per fare le sole 20 miglia che separano la costa dalle navi europee.
Questi gommoni si possono caricare con molte più persone, con poco carburante e senza nessuna sicurezza, tanto le 20 miglia da fare sono poche…
Peccato che ai “trasportatori” non interessi che: le donne vengono fatte sistemare sulla chiglia, dove si spargerà il carburante che serve per riempire il motore fino all’arrivo dei soccorsi; gli uomini si sistemeranno sui bordi da cui potranno cadere in acqua al minimo sobbalzo; che la maggioranza degli africani non sa nuotare e quindi moriranno solo per essere caduti in mare; che i carburanti versati sono altamente ustionanti e molte donne moriranno in seguito alle ustioni riportate…
A questo punto possiamo concludere questa fase del viaggio con quanto succede tra le coste libiche o nordafricane e quelle turche o greche o italiane o spagnole o maltesi.
L’arrivo dalla Libia e dalla Tunisia, con Frontex, avviene normalmente in Italia o a Malta, anche se di qui poi i profughi vengono inviati in Italia. I profughi provenienti dalle coste orientali di Libano, Siria ed Egitto vanno a sbarcare in Turchia o sulle isole greche dell’Egeo. Turchia e Grecia hanno grandi “campi profughi”, da cui poi gli stessi vengono instradati, più o meno secondo le loro volontà, verso percorsi che port
ano ai paesi nordici, salvo poi essere bloccati alle frontiere successive di Serbia, Ungheria, Slovacchia ecc.
I profughi che arrivano in Italia vengono invece chiusi nei famigerati CIE, in cui attendono anche un anno i vari “status” di rifugiato o profugo o il “via” per altri paesi.
Coloro che arrivano invece in condizioni di salute non buona vengono distribuiti negli ospedali di Sicilia prima e delle altre regioni poi.
Resta e resterà a lungo il problema dei visti e della “distribuzione dei profughi” in Europa, se il Parlamento Europeo non deciderà di rivedere gli ormai superati ed assurdi accordi di Dublino, che impongono al primo paese di arrivo il peso di tutta la trafila di quella che, con notevole senso del tragicomico, chiamiamo ancora “accoglienza”.
Fonte: http://www.unimondo.org/Notizie/Se-arrivano-dove-arrivano-164615 23.03.2017