Le proteste dei rifugiati in Libia e le gravi responsabilità italiane e dell’EU

Benché disperso con la forza il 10 gennaio scorso, il movimento autorganizzato Refugees in Libya 1 non può dirsi affatto finito. Il 4 febbraio i prigionieri del campo di Ain Zara, dove molte persone sono state portate dopo l’attacco delle milizie al presidio davanti alla sede locale di UNHCR, hanno manifestato per le condizioni indecenti in cui sono costretti a vivere, in occasione della visita di alcuni ufficiali. La consapevolezza comune delle ingiustizie subite cerca di attraversare le frontiere, con la diffusione di informazioni e rivendicazioni che passa necessariamente attraverso la rete.

Ma la strenua lotta per i diritti si accompagna sempre più anche a uno sconforto diffuso verso una situazione così drammatica e difficile da cambiare. In una discussione in diretta su Twitter del 3 febbraio, i promotori hanno lanciato un appello drastico ai cittadini africani che sperano di raggiungere l’Europa tramite la Libia: “Non venite qui, non è sicuro. Nonostante i media dipingano la Libia attuale come un paese in transizione verso la stabilità, dietro la facciata delle istituzioni che riprendono a funzionare c’è la normalizzazione della violenza razzista all’interno del sistema statale. Gli abusi contro i migranti sono la norma e non esistono tutele e riconoscimenti di una forma di protezione, né di regolarizzazione del proprio status. Questo sistema è tenuto in piedi dai generosi introiti provenienti dall’Europa, Italia in prima linea.

I libici fanno un “uso eccessivo della forza”, ma l’Europa non mette in discussione gli accordi

Che la Libia non sia un luogo sicuro per chi migra, è praticamente sotto gli occhi di tutti. Nessuno può affermare di non sapere cosa succede sull’altra riva del Mediterraneo, soprattutto non chi sostiene economicamente quel sistema di abusi e segregazione. A ulteriore conferma della tacita connivenza delle istituzioni europee, un rapporto militare confidenziale reso noto da Associated Press il 25 gennaio 2 riferisce di un “uso eccessivo della forza” da parte delle autorità libiche. La motivazione, secondo il rapporto, è che i libici non stiano più seguendo l’addestramento fornito dagli europei.

Una constatazione del genere – per quanto aggiri ipocritamente il fulcro del problema – dovrebbe almeno sollevare dei dubbi sul sistema di finanziamenti verso la Libia. E invece, come rivela il rapporto, l’intenzione dell’Ue è quella di continuare l’operazione di supporto alla formazione di una Guardia costiera libica in grado di intercettare sempre più imbarcazioni che tentano di raggiungere le sponde europee.

Poco importa se questa entità è controllata dalle stesse persone implicate nel traffico di esseri umani e nella gestione dei centri di detenzione per migranti, caratterizzati da torture, violenza, privazioni e condizioni igieniche precarie. La nomina di Mohammed al-Khoja, capo milizia già noto per violazioni dei diritti dei migranti, a guida del Dipartimento per la lotta all’immigrazione irregolare 3 conferma ancora una volta la profonda connessione tra il potenziamento della Guardia costiera libica e il rafforzamento delle milizie che lucrano sulle detenzioni e il traffico dei migranti.

Un giorno, forse, qualcuno ne dovrà rendere conto. Ma nel frattempo l’Unione europea decide di continuare a ignorare le violazioni commesse dalle forze libiche ai danni di migranti, rifugiati e persone in transito. Circa 5 mila persone che tentavano la traversata sono state ricondotte dal mare alla Libia soltanto tra agosto e novembre 2021: riportate forzatamente, e illegalmente, agli orrori da cui scappavano.

Cosa significa finanziare i libici

Il continuo flusso di soldi nelle tasche delle autorità libiche si traduce in un rafforzamento diretto delle strutture repressive. Con il violento sgombero del 10 gennaio si è cercato di zittire le voci di chi da mesi chiedeva un’azione decisa da parte delle istituzioni internazionali. Le persone, sfollate dal quartiere di Qargarish a ottobre in seguito a un rastrellamento, si erano accampate davanti a UNHCR per chiedere protezione e un piano di evacuazione dal paese, dove è impossibile per un rifugiato vivere in sicurezza per via della totale assenza di un sistema di tutele per chi migra.

[I miliziani] ci hanno attaccato furiosamente, hanno iniziato a picchiarci con violenza e ad arrestarci, ci hanno caricati in macchine della polizia e autobus; alcuni rifugiati hanno cominciato a correre e le milizie hanno sparato a tutti quelli che cercavano di scappare”, ha raccontato un testimone. “È stato un incubo […], ci sono state violazioni, stupri, violenze come in tutte queste operazioni efferate che conosciamo tutti fin troppo bene. Almeno sono sopravvissuto” 4 Sono stati stimati più di 600 arresti 5: molti sono stati deportati nel campo di Ain Zara, centro di detenzione per migranti governativo attivo dal 2013 in cui, secondo gli ultimi dati disponibili del 2021, erano già rinchiusi circa 1.200 detenuti. Uno dei migranti catturati nel raid racconta in una recente intervista pubblicata dal Manifesto 6 come si vive ad Ain Zara, tra sovraffollamento e torture delle guardie carcerarie.

Sarebbero più di 12 mila secondo le Nazioni Unite i migranti prigionieri delle 27 strutture governative sparse per il paese, a cui si aggiungono migliaia in centri “informali”, ancora più difficili da monitorare 7. Da questi ultimi trapelano poche notizie, ma la situazione sembra ancora più angosciante: testimonianze recenti dal campo di al-Maya, a ovest di Tripoli, hanno riferito di frequenti percosse e sparatorie, malnutrizione e malattie che hanno portato a diverse morti, compresa quella di una donna e del suo bambino appena nato, per mancanza di assistenza e di condizioni idonee.

Secondo quanto riferito a InfoMigrants, l’UNHCR è a conoscenza del campo, che però non ricade nell’ambito delle sue competenze perché non è gestito da funzionari governativi: questo significa che nel campo non entra personale umanitario internazionale per verificarne le condizioni o portare assistenza. Circa 3 mila sarebbero i prigionieri del solo campo di al-Maya, ma molti altri sono sparsi per il paese. Un’inchiesta di Oxfam denuncia la scomparsa di 20 mila persone, su un totale di 80 mila nel 2021, tra quelle intercettate in mare e respinte in Libia 8: probabilmente sono state inviate in strutture informali come questa.

Raccontare la protesta: un atto non indifferente

Proprio quelle autorità internazionali che dovrebbero lavorare a fianco delle persone vulnerabili hanno dimostrato quindi non solo di essere impotenti, ma addirittura di rinnegare la loro funzione. Difficilmente si può giustificare il lungo silenzio di UNHCR Libia di fronte alle richieste di azione da parte dei migranti accampati per più di tre mesi alle loro porte: l’organizzazione non ha fornito risposte adeguate né un’assistenza di emergenza capillare, attribuendo anzi al presidio stesso la causa dell’interruzione dei servizi 9. In un video messaggio del 5 dicembre Jean Paul Cavalieri, capo della missione UNHCR in Libia, aveva accusato i manifestanti di impedire ai richiedenti asilo l’ingresso nella sede e nel centro di registrazione per svolgere le procedure regolari 10: in questo modo l’agenzia ha cercato di smarcarsi da ogni responsabilità per la situazione di estremo disagio davanti alla sua sede.

 

Fonte: Meltingpot

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