Chi ragiona sulla vita dei migranti che arrivano in Europa, spesso liquida la questione ritenendo che chi parte avrebbe in realtà davanti a sé almeno due opzioni: partire, appunto, ma anche rimanere. Si calibra ogni giudizio sulla propria esperienza, si fatica a comprendere che la condizione media di un europeo non è paragonabile a quella di chi nasce in uno qualunque dei paesi da cui ha origine l’esodo. Misuriamo le partenze sulle nostre partenze e le ragioni che spingono le persone a cercare una vita migliore, sulle ragioni che portano chi conosciamo a lasciare magari il sud Italia per il nord Italia alla ricerca di un contratto decente di lavoro, o l’Italia per il resto del mondo per provare a non restare precario e sottopagato a vita.
Noi italiani siamo migranti economici. Tutti gli italiani che conoscete e che hanno lasciato il loro luogo di origine, lo hanno fatto per ragioni unicamente economiche. Da noi non esistono persecuzioni religiose, etnie oppresse, discriminazioni di massa legate alla propria sessualità, o meglio esistono, ma non si finisce in galera per queste. Non si viene banditi dalla società perché non si riesce ad avere figli, non si viene condannati, lapidati, vessati perché si è compiuto adulterio. Da noi non si usa lo stupro come arma di guerra, da noi si partorisce negli ospedali e se si sta male si viene gratuitamente curati. Da noi la scuola è garantita a tutti ed è obbligatoria, da noi ci sono leggi e ci sono forze dell’ordine e magistrati che hanno il compito di farle rispettare. Da noi c’è tutto questo, eppure quanto vorremmo che le cose andassero meglio? Pensiamo che molto di ciò che ci circonda non funzioni o funzioni male, e spesso abbiamo ragione a crederlo; riteniamo che si possa amministrare meglio, gestire meglio le risorse economiche, che si possa arginare la piaga della corruzione e che le mafie non siano contrastate in maniera efficace. Abbiamo idee abbastanza chiare sulla realtà che viviamo ma, al tempo stesso, non abbiamo alcuna idea su come le cose funzionino altrove, eppure crediamo di saperne abbastanza per poter dire: «Voi che volete accogliere tutti in Europa, perché invece non li aiutate a casa loro?».
A oggi, gli unici a portare aiuto nelle aree del mondo da dove le persone partono con la speranza di un futuro migliore sono le Ong e le organizzazioni religiose. Punto. Gli Stati nazionali l’unica cosa che riescono a esportare non è aiuto, ma armi. E come possiamo, mi domando, esportando armi, non farci carico delle conseguenze?
I dati che fornisce il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) sulla vendita di armamenti, nel suo ultimo rapporto, è illuminante. Il Sipri prende in esame le esportazioni e le importazioni globali di armi esaminando l’andamento del mercato nell’arco di 5 anni. Paragona inoltre l’ultimo quinquennio a quelli precedenti e questi dati ci danno informazioni cruciali per capire qual è la direzione verso cui ci muoviamo.
Il trend di import-export di armamenti nel rapporto 2014-2018 ci dice che rispetto al quinquennio precedente il volume è aumentato del +7,8 per cento e del +23 per cento rispetto al quinquennio precedente ancora. Le armi continuano a essere vendute e il mercato è in costante aumento: a cosa pensiamo che servano le armi? Come crediamo che si possano gestire situazioni di conflitto in presenza di un massiccio arrivo di armi? E riusciamo a farci un’idea su chi siano le prime vittime dei conflitti in cui viene fatto uso delle armi che gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’Europa producono ed esportano? Non ci rende meno colpevoli sapere che l’Italia è attualmente “solo” al nono posto tra i primi dieci esportatori globali di armi. Non ci rende meno colpevoli sapere che la fetta di mercato che ha l’Italia è del 2,3 per cento, non ci assolve l’informazione che il mercato delle armi italiane ha subìto una contrazione (-6,7 per cento). Le nostre armi arrivano principalmente in Turchia, in Algeria e in Israele. Il Medio Oriente è l’unica area del mondo dove le esportazioni di armi continuano ad aumentare e l’Italia contribuisce a questo aumento, così come un’arma su due diretta in Africa va in Algeria.
Perché crediamo, noi europei, di poter impunemente esportare guerra senza doverci far carico di chi paga, sulla propria pelle, le conseguenze?