Don Nandino e i migranti della Casa di Amadou

Tutte le occasioni che ho per parlare con le comunità in giro per l’Italia sono per me una enorme ricchezza. Una di queste occasioni si è presentata lo scorso 2 febbraio a Marghera (Venezia) su invito di don Nandino Capovilla, dal 2013 parroco della chiesa della Resurrezione nel quartiere della Cita. Conoscevo don Nandino per il suo impegno nei movimenti per la pace e in quanto è stato coordinatore nazionale di Pax Christi. Mi sono trovato davanti una nutrita assemblea, formata da famiglie e anche da giovani: penso che in chiesa quella sera ci fossero poco meno di un migliaio di persone. I temi erano ampi – ambiente, migrazioni, economia – e c’è stato modo di dialogare con le persone e di condurre la riflessione sulla necessità di un cambio di mentalità per tutti e di un rinnovato impegno per le comunità ecclesiali.

E, a proposito di migrazioni, ho potuto conoscere un concreto modello di integrazione, incentrato sulle attività della Casa di Amadou, dell’associazione Di Casa e della rete Appartamento solidali. Un modello che si coglie anche appena arrivati in canonica. Don Nandino ha aperto le porte non solo ai veneziani, ma anche ai migranti che non sono una presenza marginale nemmeno da quelle parti. Del resto i migranti che si muovono lungo la cosiddetta rotta balcanica (Siria-Turchia-Grecia) arrivano anche nel Veneziano.

La Casa di Amadou è una associazione di volontariato – attiva dal 2015 dapprima come realtà informale e dal 2018 come un’articolazione del Progetto Jumping, finanziato dalla fondazione Khane – che ha coinvolto in questi anni una trentina di volontari e un centinaio di migranti. Nella fase più strutturata, dal 2018, la Casa di Amadou ha lavorato con una ventina di migranti tra il 18 e i 30 anni. Fornendo loro un alloggio, la possibilità di imparare la lingua italiana, un corso di formazione per apprendere un lavoro, il sostegno legale e una rete amicale.

Le ricadute di questo modello di integrazione sono più che incoraggianti. Per prima cosa il livello di conoscenza della lingua italiana ha avuto un’impennata e questo è un aspetto fondamentale perché consente al migrante di orientarsi meglio nella società e di costruire relazioni. Riguardo alla formazione professionale, i corsi hanno una durate da tre a sei mesi e una decina hanno scelto il settore della ristorazione, quattro l’edilizia, due l’agricoltura… Una volta acquisite le basi di un mestiere, si sono registrati questi risultati: il 67% è riuscito a ottenere un contratto di lavoro; il 20% sta svolgendo un ulteriore tirocinio in azienda; il13% è ancora alla ricerca di un’occupazione. A ciò va aggiunto che chi sta lavorando ha più possibilità di trovare una casa in affitto e dunque di raggiungere un’autonomia abitativa.

Ma la cosa bella, che mi preme sottolineare e che certamente è positiva sia per la gente di Marghera sia per i migranti, è questa: sono stati capaci di creare un senso profondo di comunità. Una comunità che comincia in canonica, dove tutti possono entrare e trovare ascolto, e che si è poi amalgamata nei quartieri.

Un’esperienza che sono davvero contento di aver conosciuto. E di questo ringrazio don Nandino che certo si è fatto ispirare dalle parole di apertura e dai gesti di papa Francesco.

Don Nandino Capovilla*

Il 20 ottobre 2013, il patriarca Francesco Moraglia ha celebrato l’insediamento di don Ferdinando Capovilla nella parrocchia della Resurrezione. In quell’occasione, il nuovo parroco, che già conosceva il quartiere, così sintetizzò il suo programma pastorale: «Stiamo cercando di non dire più “noi” e “loro” quando incrociamo fratelli bengalesi, cinesi o africani. Il sogno purtroppo si scontra spesso con le diffidenze e i pregiudizi dei condomini della Cita, dai quali i parrocchiani stessi fanno spesso fatica a scendere. Sarà una bella sfida».

Nigrizia

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