Evidente l’aumento delle espressioni discriminatorie e offensive “in particolare dall’ultima campagna elettorale in poi. Da una parte servono più sanzioni ai giornalisti che le usano, dall’altra una ribellione verso i politici che comunicano via social senza contraddittorio”, spiega Valerio Cataldi, presidente dell’Associazione Carta di Roma. Vita lo ha intervistato pochi giorni dopo l’uscita dell’aggiornamento delle linee guida della Carta
di Daniele Biella
Se ce l’avessero raccontato anche solo un decennio fa, quasi nessuno ci avrebbe creduto. Invece è proprio tutto drammaticamente vero: l’hate speech, il linguaggio d’odio – partendo dall’online e arrivando nel mondo reale – ha avvelenato una larga parte della nostra società tanto da renderla irriconoscibile. Fino a che punto si arriverà, in un’epoca in cui anche l’agone politico è immerso in questo veleno? “L’esplosione dell’incattivimento sociale è avvenuta proprio quando la politica ha fatto proprio il linguaggio d’odio”, sottolinea Valerio Cataldi, che oltre a essere un affermato giornalista del Tg2, spesso inviato speciale nei luoghi caldi del Pianeta, è dal 2017 presidente dell’Associazione Carta di Roma, l’ente che più di tutti in Italia studia l’hate speech per poi diffondere dati e dinamiche utili a fare conoscere alla popolazione l’effetto disastroso che genera tale linguaggio.
Nata con il nome del più importante documento deontologico giornalistico sul tema dell’informazione corretta sui temi dell’immigrazione e dell’asilo politico, la Carta di Roma (pubblicata nel 2008, qui il testo) appunto, l’associazione ha pubblicato il 2 ottobre 2018 le nuove linee guida (scaricabili in coda all’articolo) e lanciato una nuova azione informativa dal titolo L’effetto che fa per ridare un senso corretto a parole impropriamente: ecco un video di lancio dell’iniziativa.
Un recente monitoraggio dell’associazione Carta di Roma sui telegiornali di prima serata di Rai, Mediaset e La7 rivela un dato eclatante: negli ultimi 12 anni i riferimenti all’immigrazione sono aumentati di oltre il mille per cento, ovvero dieci volte: dalle 380 notizie in tutto del 2005 alle 4.268 del 2017. Spesso con toni emergenziali e soprattutto con parole fuori luogo. “Mettiamo il caso della parola ‘clandestino’, la più abusata. Se un giornalista la usa in modo sbagliato nel raccontare quello che accade contribuisce suo malgrado a rendere più cattivo il linguaggio”, indica Cataldi. “A questo si aggiunge l’ulteriore aggravante di chi la utilizza, per esempio a livello politico, per colpire direttamente alcune persone che sceglie come target”. Per esempio? “L’abuso negli ultimi mesi della parola ‘negro’: era uscita quasi del tutto dal linguaggio degli italiani, oggi invece in questo clima diffuso di odio la ritroviamo spesso in bocca a molte persone”. Si vedano le ultime denunce di attacchi verbali – non di rado sconfinanti poi in attacchi fisici) a medici, infermieri o camerieri di pelle nera. “Abbiamo rilevato che nei titoli dei giornali si ritrova ben 56 volte nei primi due mesi del 2018, a fronte delle 20 volte in tutto il 2017. E’ ovvia l’influenza dell’ultima campagna elettorale”, rileva il presidente di associazione Carta di Roma, che terrà un panel sull’uso non discriminatorio delle parole legate alle frontiere nella mattina di venerdì 12 ottobre a Palermo all’interno del Festival Sabir.
Ci sono giornali o programmi televisivi che più di altri usano l’hate speech?“Sì. Il problema è l’inefficacia del sistema sanzionatorio: quando i paletti delle regole deontologiche non vengono rispettati non arrivano le necessarie sanzioni e quindi il giornalista in questione si sente legittimato a continuare a usare il linguaggio d’odio”, risponde Cataldi. Lo strumento iniziale da cui, in caso di violazione accertata – dovrebbe poi scaturire un provvedimento disciplinare, è l’esposto. “Ma la competenza è territoriale, ovvero degli uffici preposti di ciascun Odg (Ordine dei giornalisti) regionale, e la maggior parte delle volte la risposta che arriva è a nostro avviso troppo blanda”. Riuscire ad arginare l’aumento del linguaggio d’odio nel giornalismo e nella politica è un imperativo del prossimo futuro: “bisogna continuare senza esitazione a richiedere l’uso di parole adeguate, che non sollecitino la ‘pancia’ delle persone ma le stimolino a ragionare il più possibile”, prosegue Cataldi. Dal punto di vista della politica, in particolare, “sono i giornalisti stessi che dovrebbero ribellarsi a chi rifiuta la mediazione giornalistica e lancia i propri messaggi autoproducendoli sui social network, per esempio con videomessaggi senza contraddittorio”. Social network come facebook e twitter “che sono quasi senza regolamentazione e in cui chiunque di fatto può dire o scrivere qualsiasi cosa”.