La piccola di origine afghana, orfana di padre ed ospitata con la madre e un fratellino, risiedeva nel capo ufficiale dell’Ue
Quella della piccola migrante arsa in un incendio nel campo profughi di Moria è la cronaca di una morte annunciata. Le autorità si affrettano ad archiviare la morte della piccola afghana di 6 anni come un malaugurato incidente. Una disgrazia, in realtà, già scritta nell’abisso dei diritti umani in cui è precipitata l’isola, mentre sul confine continentale continuano gli assalti dalla Turchia alla barriera di Kastanies.
Ne parleranno oggi in videoconferenza la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Macron e il reis di Ankara, Erdogan. Vertice a tre da cui risultano esclusi la Commissione Ue e il governo di Atene.
La tragedia di ieri nel campo di Moria avrebbe potuto avere conseguenze perfino peggiori. Quando dalle baracche sulla collina si è levato il primo sbuffo di fumo nero, tutti sono fuggiti in una corsa disperata. Perché il campo profughi ufficiale, quello finanziato dall’Unione europea e che sulla carta dovrebbe offrire condizioni di vita e di sicurezza maggiori rispetto ai miseri insediamenti spontanei che occupano le aree interne dell’isola, altro non è che una polveriera. Il fuoco ha bruciato due container utilizzati come alloggi e ha divorato alcune tende. Le famiglie sanno di dover stare in coda anche per due ore prima di ricevere del cibo, e il doppio del tempo per accedere a un bagno. Così chi può si adatta, accendendo un fuoco per far da mangiare ai bambini o per riscaldare l’acqua, che nei fatiscenti servizi igienici scorre quasi sempre gelata.
«Durante le operazioni di soccorso è stata trovata una bambina senza vita» ha spiegato all’agenzia “Reuters” il portavoce dei vigili del fuoco dell’isola. La bimba, orfana di padre ed ospitata con la madre e un fratellino, risiedeva nell’area collinare di Moria, tra i container nei quali in maggioranza si trovano i migranti africani. Il campo, costruito per ospitare meno di 3.000 persone, oggi ne ospita circa 19.400 in condizioni di sovraffollamento e senza alcuna tutela per la salute e la dignità. A pesare sul futuro anche la decisione di Atene di sospendere il procedimento per le richieste d’asilo.
Nell’arcipelago il pericolo di una rivolta che coinvolga anche i migranti è più di un rischio. Da ottobre sono morti 4 profughi a Lesbo, tre dei quali bambini. I campi costruiti a partire dall’emergenza migratoria del 2015 possono ospitare complessivamente 6 mila profughi, ma nelle isole più prossime alla costa turca ci sono oltre 42 mila persone. Nella crisi si sono inserite le azioni di estremisti di destra che hanno aggredito giornalisti ed operatori delle ong.
I timori riguardano anche il Coronavirus. Unhcr–Acnur sta lottando contro il tempo per tentare iniziative di prevenzione. Un contagio nei campi profughi, spiegano dall’agenzia Onu, sarebbe quasi impossibile da gestire nelle condizioni attuali.
Atmosfera analoga a quanto avviene sul confine terrestre con la Turchia. L’ong italiana Intersos ha già predisposto una missione d’emergenza, nel caso in cui gli accessi dalla Turchia aumentassero copiosamente. «Per il momento i numeri restano bassi – spiega Alessandro Mangione,che segue gli operatori nell’area del fiume Evros –. Chi attraversa il confine viene arrestato. I pochi che riescono a sfuggire alla cattura tentano la rotta balcanica».
Dal 29 febbraio, quando ha avuto inizio la nuova crisi creata di proposito dalla Turchia che ammassato migliaia di persone al confine con con la Grecia, sono stati arresti 410, a fronte di 52.541 tentativi di accesso illegale. Numeri che Erdogan potrà usare ancora oggi nel negoziato con Merkel e Macron.