Dipingere la migrazione come un "problema" non è neutrale: è una costruzione politica che legittima le politiche di esclusione e alimenta gli stigmi. Questa è l'analisi dell'antropologa zimbabwese Rose Jaji, docente all'Università dello Zimbabwe e punto di riferimento negli studi sulla mobilità umana.
In un'intervista rilasciata al Centro Scalabriniano di Studi sulle Migrazioni (CSEM), Jaji mette in guardia dai rischi delle narrazioni dominanti, soprattutto nei contesti europei e africani, e invoca un approccio più umano e intersezionale, basato sull'ascolto delle storie dei migranti stessi.
Secondo l'antropologo, quando etichettiamo la migrazione come un problema, partiamo da una logica statale che vede la mobilità come un'anomalia. "Quando diciamo che la migrazione è un problema, partiamo dall'idea che qualcosa è andato storto. Questo ha le sue radici nell'emergere del moderno Stato-nazione in Europa e nella sua diffusione, soprattutto attraverso la colonizzazione", spiega l'antropologa.
Le narrazioni che ritraggono i migranti come una minaccia finiscono per dare forma a politiche di esclusione. "I migranti sono spesso identificati come una minaccia e l'unità tra i cittadini non si costruisce intorno a valori condivisi, ma a una comune antipatia nei loro confronti. Quando i migranti vengono dipinti come un pericolo in movimento, l'ostilità diventa la reazione naturale di coloro che si considerano vittime dell'immigrazione. Questo trasforma la migrazione in una questione di intensa controversia politica, in cui i politici rispondono più alle paure dell'elettorato che alle realtà concrete", afferma Jaji.
Sebbene questo scenario sia più visibile in Europa, la ricercatrice osserva che, sebbene in Africa si verifichino occasionali episodi di ostilità, il discorso anti-immigrazione non domina ancora il dibattito politico nel continente. Secondo la ricercatrice, queste politiche riflettono le paure sociali e distorcono le responsabilità, incolpando i migranti di fallimenti che in realtà sono il risultato di una cattiva gestione interna.
Intersezionalità: strumento o trappola?
Per quanto riguarda l'applicazione dell'approccio intersezionale - che considera fattori come il genere, la razza e la classe - Jaji offre un'analisi critica e attenta. "Vedo l'intersezionalità come un'arma a doppio taglio", afferma. Da un lato, riconosce che questi marcatori possono combinarsi per escludere e limitare le opportunità. Dall'altro, mette in guardia dal rischio di stereotipi universali.
"Come donna africana, sono spesso vista attraverso lenti che non riflettono la mia reale esperienza. La mia razza e il mio genere vengono usati per dedurre la mia classe sociale, cancellando la mia stessa narrazione", afferma. Secondo l'autrice, un approccio veramente umanizzante deve permettere a ogni persona di raccontare la propria storia, anziché essere incasellata in categorie predefinite.
Un campanello d'allarme per il mondo accademico e la società civile
Infine, Jaji fa un'osservazione importante: attenzione agli stereotipi, anche se ben intenzionati. L'autrice sostiene che, sottolineando solo la sofferenza e la vulnerabilità dei migranti, si rischia di rafforzare una visione patologica e riduzionista.
"Il linguaggio è importante. Se non viene valutata con attenzione, può essere controproducente", afferma l'autrice. L'autrice raccomanda a ricercatori e attivisti di adottare un approccio più completo e inclusivo, che riconosca i talenti, le conoscenze e i contributi dei migranti alle società ospitanti.
Inoltre, Jaji richiama l'attenzione sull'invisibilizzazione di alcune rotte migratorie, come i flussi da Nord a Sud, che non ricevono la stessa attenzione mediatica e accademica. "Questo rafforza l'idea errata che ci siano solo arrivi e mai partenze".